“Sull’isola c’era una guardia di nome Kostja Venikov, era giovane. Faceva la corte a una bella ragazza, anche lei deportata. La proteggeva. Un giorno, dovendosi allontanare, disse a un compagno: ‘Sorvegliala tu’, ma quello, con tutta quella gente intorno non riuscì a fare granché… qualcuno la prese e la legò a un pioppo: le tagliarono […]
“Sull’isola c’era una guardia di nome Kostja Venikov, era giovane. Faceva la corte a una bella ragazza, anche lei deportata. La proteggeva. Un giorno, dovendosi allontanare, disse a un compagno: ‘Sorvegliala tu’, ma quello, con tutta quella gente intorno non riuscì a fare granché… qualcuno la prese e la legò a un pioppo: le tagliarono il petto, i muscoli, tutto quello che si poteva mangiare, tutto, tutto… avevano fame. Bisognava pur mangiare.”
L’agghiacciante passo tratto da “L’isola dei Cannibali” non è invenzione. L’isola raccontata da Nicolas Werth, storico francese esperto di questioni sovietiche, esiste realmente. Si chiama Nazino, è un piccolo villaggio sperduto sulle rive dell’Ob’, Siberia, a 900 chilometri da Tomsk. Vera è anche la testimonianza riportata. È stata raccolta il 21 luglio 1989, proprio a Nazino, da Valerij Fast, membro di Memorial, associazione russa nata in epoca gorbacioviana allo scopo di perpetuare il ricordo delle repressioni politiche nell’URSS. A parlare è Taisa Michajlovna Cokareva, anziana contadina di etnia ostiaca, testimone oculare di questa storia di orrore, accaduta nel 1933. A distanza di 75 anni da questi tragici eventi, Nicolas Werth – docente di storia presso l’Institut d’histoire du temps present del CNRS ed ex addetto culturale dell’ambasciata francese a Mosca – ricostruisce, dati e testimonianze alla mano, una delle più brutali vicende dell’epoca stalinista. Un’operazione d’ingegneria sociale, pianificata dal partito e dalle forze di polizia, tesa a “epurare” e a “purificare” determinati spazi sovietici – in particolare i centri urbani, “vetrine del socialismo” – dai loro “elementi declassati e socialmente nocivi”, deportandoli nelle cosiddette “zone pattumiera” della Siberia.
Nel 1933, mentre in Ucraina Stalin dà vita a una carestia pianificata che stermina milioni di ucraini, nell’estremo nord dell’Unione si assiste al trasferimento forzato di elementi “socialmente nocivi” – ex kulaki, teppisti, vagabondi, individui “declassati”- e all’inizio di una sperimentazione sociale di vera e propria “decivilizzazione”.
Le migliaia di persone scaricate a Nazino trasformeranno questa isoletta sul fiume Ob’ in un autentico girone infernale. Disperati e affamati, alcuni di questi deportati cercarono la fuga nelle campagne, altri dettero l’assalto alle case dei villaggi e si trasformarono in ladri, assassini e cannibali prima di morire d’inedia o di essere sommariamente giustiziati. Questo in estrema sintesi il racconto raccapricciante di ciò che accadde in quei giorni su quest’isola siberiana. Ciò che rileva ai fini storici è collocare questo episodio all’interno delle più complesse politiche attuate da Stalin nella sua opera di sovietizzazione dell’intero paese. La tesi sposata da Werth – supportata da tante evidenze empiriche tra cui le direttive riservate inviate dal dittatore georgiano ai suoi uomini, venute alla luce grazie all’apertura degli archivi del KGB – è che il “piano grandioso” proposto all’inizio del ’33 rappresenta la seconda tappa del programma iniziato tre anni prima riguardante la “liquidazione dei kulak come classe”. Tale progetto si proponeva un duplice obiettivo.
Estirpare gli elementi che avrebbero potuto opporre resistenza alla collettivizzazione forzata delle campagne e colonizzare vaste aree della Siberia, del Grande Nord, degli Urali e del Kazakistan. La vicenda di Nazino, in misura finanche superiore ad altre tragedie dello stalinismo – scrive Werth – è una storia di arbitrio, violenza “dove tutti sono armati, la vita umana non ha valore e la caccia all’uomo quando capita, sostituisce quella agli animali”. Citando inconsciamente Hobbes, l’istruttore propagandista Velicko in una coraggiosa lettera a Stalin scriverà: “Sull’isola di Nazino, l’uomo ha cessato di essere un uomo. Si è trasformato in sciacallo”. Pietra miliare nella letteratura sul comunismo sovietico degli anni ‘30, L’isola dei Cannibali, ci impone tante riflessioni costringendoci a riconsiderare la tragica storia del ‘900. Un secolo in cui, alla luce delle evidenze provenienti dall’ex Unione Sovietica, non ha più senso parlare di “giorno della memoria” riferendosi a un singolo orrore. Il quadro è molto più complesso. Non sono più ammessi giudizi parziali
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