Hubert Pilcìk è un serial killer cecoslovacco, si sa molto poco di lui (i dettagli vennero insabbiati dal regime comunista e persino ora, a distanza di sessant’anni, non si conosce tutta la verità), nacque il 14 ottobre 1891, nella Repubblica Ceca, per qualche tempo lavorò in una fabbrica, prima di andare in pensione. Sposato e […]
Hubert Pilcìk è un serial killer cecoslovacco, si sa molto poco di lui (i dettagli vennero insabbiati dal regime comunista e persino ora, a distanza di sessant’anni, non si conosce tutta la verità), nacque il 14 ottobre 1891, nella Repubblica Ceca, per qualche tempo lavorò in una fabbrica, prima di andare in pensione. Sposato e senza figli, Hubert apparentemente conduceva una vita normale e godeva di una buona reputazione. Ma dietro questa facciata si nascondeva un vero e proprio criminale: un trafficante di essere umani che si macchiò di sequestro di persone e stupro, e che commise almeno cinque omicidi: cinque emigranti cecosvolacchi diretti in Germania o in Austria, o almeno questi furono quelli da lui confessati.
Per capire meglio in che contesto avvennero gli omicidi dobbiamo patire dal quadro storico in cui viveva: dopo la II guerra mondiale, la Cecoslovacchia era caduta nella sfera d’influenza dell’unione Sovietica, e quando il comunismo si consolidò, circa nel 1948, moltissimi cittadini si ingegnarono per lasciare il paese illegalmente. A quel tempo attraversare il confine era difficile, quindi chi conosceva meglio le strade meno battute e più sicure si faceva pagare caro per portare gli emigranti fuori dal confine, Pilcìk era uno di questi, si offriva di aiutare gli emigranti a lasciare il paese, ma lo faceva solo per poterli uccidere indisturbato ed impossessarsi dei loro beni.
Tutto cominciò nel piccolo villaggio di Nekmíř, era la sera del 6 marzo 1951 quando una capanna nei pressi del bosco attiguo al paese prese fuoco. Il mattino seguente da quel che rimaneva dell’edificio emersero i resti bruciati di un corpo con accanto alcuni effetti personali, al collo del cadavere pendeva una catenella con degli anelli rettangolari. Quando venne effettuata l’autopsia si scoprì che la morte non era stata accidentale ma che l’ uomo era stato cosparso di liquido infiammabile e dato alle fiamme mentre era ancora in vita, il corpo era stato brutalmente mutilato e infatti era privo di arti e interiora. Nonostante le numerose indagini non si scoprì l’identità del corpo.
Il 20 luglio dello stesso anno, a circa 10 km dal luogo in cui era stato recuperato il cadavere carbonizzato rimasto non identificato, mentre dei bambini stavano giocando, venne ritrovata una gamba umana amputata. Poco distante dal ritrovamento dell’arto, gli investigatori trovarono il corpo di una donna di circa 30 anni, in avanzato stato di decomposizione, seminuda, con un bavaglio sulla bocca e una corda intorno al collo. Questa volta riuscirono ad identificare la vittima: era Renata Balleyovà, e scoprirono che la donna aveva intenzione di emigrare illegalmente in Germania con il padre Emanuel e la nipote di 12 anni.
Una loro parente, che ne identificò il cadavere, si disse convinta che i tre fossero già in Baviera poiché le era arrivata perfino una lettera dalla nipote, che però non aveva né francobollo e né timbro postale. Da questo particolare gli investigatori capirono che quella poteva essere una prova del fatto che nemmeno la bambina si trovasse effettivamente in Baviera, quindi chiesero alla donna se fosse in grado di riconoscere la persona che aveva consegnato la lettera, a quel punto la donna non solo disse di conoscerlo ma di sapere addirittura dove abitasse.
La polizia lo arrestò il 6 settembre 1951, un gruppo di agenti travestiti da elettricisti si introdussero nella sua abitazione, lo trovarono solo in casa e in quella stessa casa ritrovarono la nipote di Renata, che era stata nascosta in un vano di un porcile.
La piccola era immobilizzata in una strana struttura, composta da due lunghe tavole dotate di cinghie e di una piccola scatola posta sulla sommità. La sua testa era infilata in quella scatola che era piena di stracci per attutire le sue urla, e con un tubo in bocca per farla respirare, per due mesi era rimasta lì, senza poter andare in bagno o difendersi dagli insetti e i topi che la tormentavano, venendo violentata e torturata regolarmente, il suo aguzzino le aveva fatto scrivere delle lettere, così che la zia credesse che fosse arrivata in Germania sana e salva, e lui stesso le aveva consegnate personalmente. Inizialmente Plicìk negò il suo coinvolgimento negli omicidi, ma le sue dichiarazioni erano troppe discordanti e alla fine sotto il peso delle accuse, confessò i suoi omicidi.
In base alle prove acquisite egli venne ufficialmente accusato di cinque omicidi, ma si stima che ne avesse commessi molti di più. il 9 settembre 1951 Plicìk si suicidò in cella, i suoi parenti non vollero le sue spoglie e le donarono alla scienza: la sua testa è tuttora conservata in un barattolo di vetro.
Presso il Police Museum di Praga invece è esposto l’aggeggio che era servito a segregare la nipote di Bolleyovi.
E pensare che Plicìk era stato uno dei marinai in servizio sul Titanic, più fortunato di molti altri, infatti riuscì ad imbarcarsi su una scialuppa e a salvarsi prima che la nave si inabissasse.
La Nona Porta
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