La risiera di San Sabba fu l’unico vero campo di sterminio in Italia, molto simile a quelli tedeschi, inizialmente utilizzato per il transito e la detenzione per poi divenire un vero lager dove si effettuarono torture e l’eliminazione di un gran numero di prigionieri politici ed Ebrei. Lo stabilimento fu costruito nel 1913, realizzato per […]
La risiera di San Sabba fu l’unico vero campo di sterminio in Italia, molto simile a quelli tedeschi, inizialmente utilizzato per il transito e la detenzione per poi divenire un vero lager dove si effettuarono torture e l’eliminazione di un gran numero di prigionieri politici ed Ebrei.
Lo stabilimento fu costruito nel 1913, realizzato per la pilatura del riso, ma a un mese dall’Armistizio di Cassibile (quando la provincia di Trieste -assieme a quelle di Udine, Gorizia, Pola, Fiume e Lubiana- fu inclusa nell’Adriatisches Küstenland), lo stabilimento fu trasformato inizialmente in un Polizeihaftlager, campo di prigionia provvisorio per i militari italiani catturati dopo l’8 settembre in attesa di essere deportati in Germania ed in Polonia: denominato Stalag 339.
L’ufficiale delle SS supervisore della Risiera fu Odilo Globočnik, triestino di nascita, ex collaboratore di Reinhard Heydrich e responsabile dei campi di sterminio attivati nel Governatorato Generale, nel quadro dell’operazione Reinhard. Dopo qualche mese l’essiccatoio fu trasformato in forno crematorio: non fu necessario costruire il camino in quanto c’era già, lo stabile era dotato di una ciminiera alta 40 metri. Il 4 aprile 1944, con i 70 cadaveri degli ostaggi fucilati il giorno precedente al poligono di Opicina, fu attivato per la prima volta.
Nella ex risiera vennero detenuti ed eliminati sloveni, croati, partigiani, detenuti politici ed ebrei. Le finestre vennero murate, i rumori delle esecuzioni furono coperti dal fragore di motori, dai latrati dei cani appositamente aizzati, o da musiche.
Eccovi alcune testimonianze di persone sopravvissute:
Albina Skabar, originaria di Rupingrande:
“Dopo esser stata denudata, appesa per le trecce a una trave e bastonata fino a svenire, venni cacciata nella cella numero 7. Una donna diceva di essere di Gabrovizza e urlava che le SS le avevano ucciso il figlio nella culla. Ogni tre giorni aprivano le celle e lasciavano che ci lavassimo il viso con un po’ d’acqua in un catino. Quell’acqua doveva servire per tutte”
Majda Rupena:
“Ho visto due o tre volte uomini e donne sparire nel locale del forno. Capitava sempre verso le dieci e mezzo o le undici di sera. Per coprire il rumore, spesso le SS mettevano in moto un autocarro o un automobile o accendevano la radio”.
Giuseppe Gianechetti:
“…come prima cosa mi percossero abbondantemente. Il più feroce dei bastonatori era un maresciallo e ci faceva correre attorno alla vasca che serviva per i rifiuti, lavare le gavette e i vasi da notte. Le celle erano occupate da 4 persone e provvisoriamente anche da 6. Di notte non si poteva dormire perché c’era una lampadina fortissima accesa giorno e notte. Le SS spesso aprivano le porte e gridavano per farci vivere nel terrore. Non ebbi pace neanche un minuto”.
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