Cosa spinge una madre ad uccidere il proprio figlio? In molti di voi si sono posti questa domanda messi difronte ai molteplici casi di bambini uccisi dalle loro madri. La morte di un bambino venuto a mancare tragicamente smuove qualsiasi animo, ma quando a causarne la morte è la stessa madre il rifiuto e l’aberrazione […]
Cosa spinge una madre ad uccidere il proprio figlio? In molti di voi si sono posti questa domanda messi difronte ai molteplici casi di bambini uccisi dalle loro madri. La morte di un bambino venuto a mancare tragicamente smuove qualsiasi animo, ma quando a causarne la morte è la stessa madre il rifiuto e l’aberrazione nei confronti dell’accaduto è inspiegabile per le nostre menti. Proviamo per un momento ad entrare nella mente di queste donne che andando contro qualsiasi istinto provocano la morte dei loro piccoli. In questo articolo, infatti, non c’interessa giudicare o processare, ma “semplicemente” capire le ragioni che spingono una madre, che dovrebbe accudire e proteggere la propria prole, a commettere questo reato.
Cominciamo con lo sfatare il mito secondo il quale chi uccide o commette crimini particolarmente cruenti è “malato di mente” o soffre di un qualsiasi disturbo mentale, infatti le statistiche confermano che i casi più noti per la loro efferatezza sono stati compiuti da persone sane di mente.
Un soggetto psicotico, con gravi disturbi mentali, di solito compie delitti d’impeto, il più delle volte durante la fase acuta dei propri deliri, mentre il soggetto sano di mente è perfettamente in grado di programmare e premeditare e agire con freddezza e calcolo.
Un disturbo depressivo, al contrario di quanto spesso si dice, non sempre sfocia in un suicidio, anzi, in molti casi la donna che ne soffre trascina con se anche le persone a lei care realizzando così il tipico omicidio-suicidio.
Una donna mentalmente sana può uccidere il proprio figlio a seguito di continui maltrattamenti subiti, oppure perché si sente inadeguata al ruolo di madre o perché identifica il figlio con storie di abbandoni, violenze sessuali o condizioni esistenziali precarie. In questi casi non si può parlare di soggetti mentalmente malati.
Nella “Sindrome di Medea” , disturbo psicopatologico, la madre uccide il figlio, frutto dell’unione con il suo compagno, riversando sul bambino la rabbia che ha nei confronti del suo uomo.
Quando il soggetto è affetto dalla “Sindrome di Munchhausen” provoca nel figlio dei continui sintomi, costringendolo a continui ricoveri ospedalieri, ad esami e analisi che possono danneggiarlo o addirittura ucciderlo. Vi è poi la “Sindrome di attaccamento/separazione” che porta la madre ad uccidere il proprio figlio in quanto non ne sopporta la separazione dal grembo materno, questo attaccamento perverso avviene durante il periodo di gestazione.
Altre cause scatenanti di azioni efferate possono essere le reazioni scaturite da forti stress, che causano nel soggetto una temporanea alterazione dello stato di coscienza. In questo caso la donna potrebbe raccontare versioni completamente diverse da quelle che sono palesate nelle prove che la incriminano, in quanto l’alterazione dello stato di coscienza porta un soggetto a rimuovere dal livello cosciente tutto ciò che fa riferimento alla situazione traumatica e delittuosa. In queste situazioni complesse saranno le perizie di psicologi e psichiatri a delinearne il giusto profilo, che, in concomitanza con le indagini, porteranno alla conclusione della triste vicenda.
La Nona Porta
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